INTERVISTA A BRUNO CONCINA

Di Marco DELLA CROCE, Danilo FRANCESCANO, Enrica SALVATORI

© - 1999

Tu non sei solo uno sceneggiatore di fumetti, ma anche poeta e scrittore, oltre che traduttore, insegnante, ecc. Puoi dirci da dove nasce questa tua passione per la narrazione?

Direi che nasce da lontano, più precisamente nel 1950, quando avevo 8 anni; mi ricordo che durante una freddissima giornata invernale, raccontai a uno dei miei fratelli la tenera vicenda di Ortopedo Nichis, storia una piccola piuma che volteggiava in aria: fu da quel giorno che sentii dentro di me l’irresistibile voglia di raccontare. Da allora sono passati molti anni, ho fatto mille mestieri, ma non ho mai smesso di scrivere e di esplorare la parola scritta sotto tutte le angolazioni possibili.

Un’attività poliedrica come la tua presuppone un patrimonio di conoscenze non indifferente. In che rapporti sei con la cultura?

Guarda, io sono un autodidatta, un "bastardo" della cultura. A 14 anni non ero uno studente brillante, la mia famiglia era povera ed eravamo tre fratelli. Venne deciso che era tempo che contribuissi al bilancio familiare, invece di scaldare un banco a scuola. Per sei mesi mi alzai alle quattro di mattina per andare a prendere i giornali, poi feci il fattorino, quindi l’interprete e, subito dopo il militare, l’impiegato. In tutto questo periodo, tuttavia, dentro di me cresceva sempre di più la sofferenza per non avere una vera cultura. Leggevo come un matto, ma disordinatamente, di tutto e metabolizzavo tutto. Nel 1967, decisi di riprendere i libri in mano e in brevissimo tempo, da privatista, ottenni la maturità magistrale. Mi iscrissi all’Università, alla facoltà di Magistero e, dopo 24 anni, durante i quali feci l’insegnante elementare e scrissi sempre, riuscii a laurearmi per hobby. Con la cultura ho sempre avuto un rapporto positivo anche se sofferto, da inadeguato figlio povero e minore, ma molto vivo e totalizzante, anche se criticamente dialettico. Amo in particolar modo la pittura, soprattutto impressionista e surrealista, ma la mia passione suprema è la lettura: Maupassant, Kafka, Jerome, Joyce, Hemingway, Twain e Berto sono i miei autori preferiti.

Raccontaci del tuo primo incontro con i comics.

Più che di un autore o di una serie in particolare, il mio ricordo più vivo verso i comics è soprattutto fisico, sensuale: a distanza di tanti anni il contatto con quella carta, i suoi colori beige-marroncino, perfino il suo odore sono le cose che mi sono maggiormente rimaste impresse. Comunque, da bambino mi piacevano molto Tex Willer, gli Albi della Rosa, Jim Toro, Topolino, Il Monello e il Piccolo Sceriffo, che aveva in me un fortissimo potere evocativo; in seguito ho letto di tutto ma, a parte Diabolik, le mie preferenze si sono concentrate soprattutto sul fumetto comico: escludendo il mondo disneyano, Cucciolo e Beppe e il grandioso, adorato, incredibile Pugacioff su tutti.

Quali sono gli autori e le storie che ricordi maggiormente da bambino?

Carl Barks sopra ogni altro; la sua "Paperino sceriffo di Valmitraglia", che lessi a 8 anni, la ricordo ancora battuta per battuta. Leggendola, piansi. E poi Romano Scarpa, con due grandi racconti: "Topolino e l’unghia di Calì", ma soprattutto "Zio Paperone e le lenticchie di Babilonia": indimenticabile la figura del Paperone impoverito che entra in un ristorante suonando dignitosamente la sua chitarra. Paperone, lì, diventa un colosso e Scarpa il suo cantore appassionato. Non è un caso che la produzione di entrambi gli autori sia sempre stata caratterizzata da un senso epico-romantico, che è poi lo spirito che adoro e che tento di trasmettere nelle mie storie.

Quando decidesti di diventare un autore di fumetti?

Non penso che sia stata una decisione conscia, ma una tappa inevitabile all’interno del mio irrefrenabile desiderio di provare tutte le forme narrative. Dopo aver scritto, e pubblicato, favoline tipo Esopo e racconti, più centinaia di poesie e un romanzo inediti, nel 1975 incontrai un conoscente che viveva disegnando fumetti del terrore per la Edifumetto: pensai immediatamente che avrei potuto provare a scrivere qualche sceneggiatura e così tentai anche quella strada. Il mio lavoro piacque immediatamente e riuscii a pubblicare la mia prima storia che si intitolava "La notte dei bambini crudeli" (Il Vampiro-1977): da allora riuscii a vendere sceneggiature per circa due anni finché, nel 1978, decisi che ne avevo abbastanza: l’horror non era mai stato il mio argomento preferito, dal momento che a me era sempre piaciuto il genere umoristico, tenero e sentimentale. Fu così che scrissi una sceneggiatura disneyana e, facendomi coraggio, la mandai a Topolino, telefonando contestualmente all’allora direttore, il grande Mario Gentilini. Nonostante la sua estrema cortesia, mi tenne per mesi sulle spine: dapprima mi invitò a modificare un paio di dettagli, poi a inviargli altri soggetti: stava giustamente mettendo alla prova la mia vocazione e la mia passione. Passò altro tempo e, quando oramai credevo di aver fallito, la mia storia fu finalmente accettata: si trattava di "Zio Paperone e la conflittite acuta e cronica", (Topolino 1233-1979). Da allora non mi sono più fermato.

Cosa rappresenta per te la sceneggiatura?

La sceneggiatura è come una scultura. Michelangelo intravedeva nei massi una forma preesistente, che andava sgrezzata dopo averne tolto il superfluo; la libertà dell’autore era integra, totale, solo fino alla scelta del marmo, dopodiché diventava uno schiavo, fedele e subordinato alla forma nascosta. Così è lo sceneggiatore: ciò che conta non è il soggetto, ma la struttura nascosta che può essere sviluppata in tutte le sue potenzialità solo se si instaura con essa un rapporto totalizzante. La sceneggiatura si nutre di te, ti divora 24 ore al giorno, ma, inevitabilmente, ti restituisce sempre molto di più di quello che ti toglie: è una gratificazione e un arricchimento continui. La conseguenza è che, sebbene l’ideale sia costituito da una perfetta integrazione fra testo e disegno, la sceneggiatura rimane la parte più importante di una storia a fumetti. Provate a leggere una storia ben disegnata, ma sceneggiata male: è un bel quadro privo di anima.

Qual è la tua tecnica di lavoro?

Il mio metodo non è rivoluzionario, ma comune a quello di molti altri miei colleghi. Alla base di tutto c’è l’Idea: non solo la lettura, ma una continua e inevitabile osservazione della gente e del mondo che mi circonda forniscono spunti a getto continuo; sto dunque dieci-quindici giorni a metabolizzare e digerire il soggetto, occupandomi, quando è necessario, della documentazione, dopodiché passo a disegnareuno storyboard che, sebbene approssimativo, è fondamentale in quanto mi permette di controllare immediatamente la regia del racconto; per ultimo scrivo la sceneggiatura vera e propria.

Tu sei famoso per avere ideato il "fumetto a bivi", che è stata reputata come l’unica vera grande innovazione nel fumetto italiano negli ultimi venti anni. Qual è il significato di questa idea?

Il "fumetto a bivi" nasce da una notizia che sentii per caso sulle avanguardie letterarie francesi degli anni Trenta, che avevano realizzato dei racconti con differenti finali, in seguito ripresi anche dagli americani. Questo progetto non solo costituisce un ulteriore aspetto del mio irresistibile desiderio di sperimentazione pragmatica, ma rappresenta anche il tentativo di ribaltare il classico ruolo del lettore: da semplice esecutore passivo del lavoro altrui a protagonista e interprete attivo della storia. Sono profondamente convinto che, in ogni storia, il lettore ricopra un ruolo di integrazione profonda; ma deve essere provocato e stimolato, gli si devono fornire delle emozioni forti, affinché si convinca a fornire la sua interpretazione. Il "fumetto a bivi" è quindi soltanto l’estremizzazione di un concetto a cui ho sempre creduto: quello di stimolare la creatività di chi legge, invitandolo a interagire con lo scrittore. Ne consegue che una storia, non solo a fumetti, non dovrebbe fornire mai una risposta oggettiva a tutte le domande, perché è la vita stessa a non essere semplice, precisa, conclusa, bensì aperta alle varie possibilità. L’insoddisfazione nei confronti della realtà, dunque, diventa una preziosa fonte di creatività. E i finali - numerosi ma limitati - sono l'estrema provocazione a ricercarne di altri. Pedagogicamente, funziona in un modo incredibile. L'ho sperimentato in ricerche sul campo per la mia tesi di laurea.

Quali difficoltà si incontrano nella realizzazione di questo tipo di storie?

E’ obbiettivamente un lavoro difficile, quasi come cercare di domare un cavallo: se non stai attento ti scappa via sotto la sella. Io parto dal concetto fondamentale che voglio e devo offrire varie alternative, dopodiché cerco di costruirle, utilizzando una tecnica particolare che mi deriva dall’esperienza e che mi consente di riuscire a controllare tutti i finali che mi vengono in mente. O almeno lo spero.

Quali sono i disegnatori che ammiri maggiormente?

Devo riconoscere che la mia valutazione non è solamente artistico-professionale, ma suggerita anche da un giudizio sulle qualità umane, al quale non riesco, e non voglio, sottrarmi. Con la certezza di dimenticarne comunque qualcuno (e di questo mi scuso in anticipo), direi, in ordine rigorosamente alfabetico: Maurizio Amendola (grande amico e grande professionista), Sergio Asteriti (ha una mano formidabile e il cuore di un bambino), Massimo De Vita (straripante, anche se un po’ orso), Stefano Intini (coraggioso e fraterno amico, sempre alla ricerca di nuovi linguaggi espressivi), Alessia Martusciello (un talento in crescita costante), Guido Scala (non si è mai accontentato di vivere sugli allori), Romano Scarpa (di cui ho già detto), Roberto Vian (grandissimo e infaticabile talento, sempre alla ricerca di trasferire il cuore nella pagina disegnata) e Silvia Ziche (geniale nel taglio comico). Ma, lasciatemi dire, il vero genio assoluto è Giorgio Cavazzano, artista di caratura internazionale, ma al contempo umile e sempre disposto alla sperimentazione; non solo, ma ha un sincero rispetto nei confronti del lavoro altrui. Pensate che nella prima storia a bivi in assoluto, "Topolino e il segreto del castello" (Topolino 1565-1985), eravamo a filo diretto perché voleva essere informato costantemente sull'interpretazione che avrebbe dovuto dare al mio lavoro! E’ per questo che adoro lavorare con lui e, in generale, con tutti quei disegnatori che sono più disponibili alla reciproca consultazione e allo scambio di opinioni: in definitiva, a entrare in simbiosi mentale con il sottoscritto.

E tra gli sceneggiatori?

Sempre in ordine alfabetico, ho grande stima per Giorgio Figus, Carlo Panaro, Giorgio Pezzin, Nino Russo, Rudy Salvagnini, Romano Scarpa, Silvia Ziche e, naturalmente, Bruno Concina!

Ultima domanda. Cosa ti piacerebbe che si dicesse di te?

A parte il fatto che mi piacerebbe che sulla mia lapide fosse scritto "Bruno Concina: uno sperimentatore positivo", confesso che amerei che qualcuno mi definisse la "Penna romantica della Disney"… uhm, ora che ci penso, confesso che me lo hanno già detto: è stato il collega Fabio Michelini. Lo ammetto: sono un uomo davvero fortunato!

Chi è Bruno Concina

Bruno Concina nasce a Venezia il 20 agosto 1942. Sposato con due figli, laureato in Pedagogia all'Università di Padova con 110 e lode (Tesi di laurea: "Una nuova proposta pedagogica: il fumetto a bivi"), ha lavorato come fattorino, interprete, impiegato, insegnante, scrittore, soggettista e sceneggiatore di fumetti, soggettista, sceneggiatore di cartoni animati e traduttore di fumetti. Tiene lezioni sulla lettura e l'interpretazione dell'immagine a corsi di aggiornamento per gli insegnanti statali di Venezia e Padova. Collaboratore con racconti a quotidiani, riviste e mensili per ragazzi dall'età di quindici anni, finalista al "Premio Letterario Stradanova", lavora nel campo dei comics dal 1976 ed è diventato famoso per aver ideato il "fumetto a bivi" (a tutt'oggi, venti storie di questo genere, qualcuna delle quali è apparsa anche in antologie scolastiche). Premiato nel 1993 dalla Disney Italiana con la "Copertina d'Argento" (per la sua attività di soggettista-sceneggiatore), Bruno Concina ha scritto finora più di cinquecento sceneggiature per fumetti, soprattutto disneyani. E’ anche autore della serie "Animal Bus", disegnata da Maurizio Amendola, simpatiche storie di animali che lavorano ben stipendiati e rispettati in uno zoo, che esce regolarmente sul "Messaggero dei Ragazzi". Attualmente sta portando a termine la realizzazione di alcuni importanti progetti, sia nel campo della saggistica che in quello dei disegni animati.