Gianfranco Goria, genio e regolatezza

«Da ricordare», degli esordi di «Torino Comics», c’è soprattutto un certo fascino bohémien. Siamo sinceri, quando Gianfranco Goria e Vittorio Pavesio mi misero in mano il volantino che annunciava la nascita della manifestazione non nascosi un certo scetticismo. Di feste, fiere, saloni e kermesse sul fumetto cominciavano a essercene troppe, e quel foglietto — lo avete visto nelle pagine precedenti — non è che trasudasse ricchezza, nella sua scarna essenzialità. Il primo impatto con la manifestazione, nel padiglione «povero» di Torino Esposizioni, non era tale da suscitare particolari emozioni, a confronto con il fascino della cara vecchia Lucca, che pure — ed eravamo soltanto nel 1994 — non era già più quella di un tempo.

Sulla «Stampa», qualche giorno prima dell’apertura, ero stato clemente. Il servizio sulla novità torinese era poco più che una «breve», come si definiscono in gergo le notiziole da poco, da confinare nelle sezioni meno nobili del giornale. E di «nobile», quella pagina 45 del 2 giugno 1994, aveva ben poco. La presentazione cominciava così: «Mostre, dibattiti, libri. Il fumetto, che a Torino ha scritto pagine importanti della sua storia, celebra un fine settimana dedicato agli autori e agli appassionati. Sabato mattina si apre a Torino Esposizioni la prima edizione di “Torino Comics”, mostra mercato del fumetto usato e da collezione. Sui tremila metri quadrati del padiglione 4, con ingresso da viale Boiardo, i “cacciatori” di giornalini potranno ritrovare le emozioni irripetibili dei vecchi albi e delle vecchie avventure...».

Seguivano la dichiarazione d’intenti di Luciano Casadei, organizzatore allora come oggi, con la consueta promessa-speranza di chi si lancia su una strada che non si sa bene dove potrà arrivare: «Torino Comics è il primo episodio di quella che vorremmo trasformare in una tradizione...». Ultime ma profetiche le parole di Gianfranco Goria, allora come oggi spirito vitale dell’«Anonima Fumetti». Diceva Goria in quei giorni lontani: «Per anni, i “giornaletti” sono stati considerati un sottoprodotto, fin dalla definizione vagamente spregiativa. Noi pensiamo invece che il fumetto sia soprattutto un mezzo di comunicazione di massa. E che, nelle sue forme migliori, possa considerarsi a pieno diritto un’espressione di arte e di cultura».

Gianfranco Goria lo avevo conosciuto un paio d’anni prima, in un’epoca della preistoria in cui Internet apparteneva soltanto a un ristretto gruppo di americani: scienziati che si scambiavano conoscenza iniziatica e militari che lo usavano per giocarci alla guerra.

Ma che cosa faceva, Goria, prima di lanciarsi sulla rete del grande Web? Che cosa faceva l’uomo che da solo tiene in piedi la prima agenzia d’informazione sui comics («all original texts, pages and photos by Gianfranco Goria»)? Che si è inventato il sindacato nazionale degli autori, che con pochi sodàli combatte da anni per creare un «centro» nazionale in grado di dialogare alla pari con le istituzioni culturali specializzate del Belgio e della Francia, Paesi fortunati dove il fumetto sta nelle biblioteche, nelle università, forse persino nel governo?

La risposta non è difficile: prima di Internet, Goria mandava fax: attività che lo rendeva un po’ meno unico di quanto non sia adesso, vista la montagna di inutile carta che ogni giorno si abbatte sui giornali del Paese. I fax di Goria, però, avevano qualcosa di diverso: sapevano «colpire», si lasciavano leggere, solleticavano la voglia di saperne di più. Da uno di quei fogli, da cui facevano capolino un paio di omini baffuti e dal cappello enorme che lui chiamava Bab’s, avevo appreso che presto sarebbe uscita su «Topolino» una storia ambientata a Torino, con Mickey Mouse impegnato a risolvere uno strano mistero nei saloni austeri del Museo Egizio. La «Stampa», incuriosita, gli avrebbe dedicato un articolo, il primo di una serie che l’avventura di «Torino Comics» avrebbe contribuito a rendere lunga.

L’impressione ricevuta da quel primo incontro, agli inizi degli Anni Novanta, poteva bastare a vincere il mio piemontesissimo scetticismo: qualche mese più tardi avrei visto nascere l’«Anonima Fumetti», cogestita da Goria e da un Vittorio Pavesio non ancora trasformatosi in editore. Un gruppo dai progetti ambiziosi che spesso sembravano sfociare nel mondo dei sogni, ma che prima o poi la realtà rivestiva di concretezza. Perché dubitare proprio di «Torino Comics», allora? Tanto più che anche in quella primissima edizione, oggi derubricata al rango di «numero zero», qualcosa di nuovo c’era.

Nel vecchio Padiglione 4 — che forse non sarà stato un garage come si racconta nell’amarcord a pagina 7, ma che certo non risparmiava ai pavimenti le macchie d’olio e le tracce di pneumatico — tra spazi piccoli, mercanti perplessi e un bel po’ di appassionati contenti, si diede appuntamento un bel gruppo di addetti ai lavori: Franco Fossati, Claudio Chiaverotti, Giorgio Figus, Bruno Sarda, Luigi Piccatto, Cinzia Ghigliano e Marco Tomatis intrattennero per un paio d’ore una platea magari non foltissima, ma certo attenta. Quel dibattito sui cento anni del fumetto prossimi venturi era anch’esso l’inizio di una tradizione: «Il nostro obiettivo — spiegava Goria in un angolo del “garage” — è quello di promuovere Torino Comics come il “salone degli autori”. Ormai le manifestazioni sui fumetti si sono moltiplicate in tutta Italia. Noi lavoreremo per unire ai tradizionali stand destinati ai collezionisti alcuni momenti di riflessione sullo stato della nona arte».